La pubblicazione. Nel suo libro “In mezzo ai girasoli e sotto le betulle” racconta la storia del bolzanino Montini, sopravvissuto alla campagna di Russia e a tre anni di gulag, che fece di tutto per ritrovare la dottoressa che lo salvò.
Una passionaccia nata sui banchi di scuola. Primi anni Settanta, seconda elementare alla scuole Don Bosco. Il maestro Cesare Zilio invita in classe Nella Mascagni “Lei ci racconta dei lager di via Resia, del blocco celle, delle violenze delle SS ucraine, Misha Selfert e Otto Sein. Lì ho capito l’importanza della testimonianza”. Corrado Palmarin di anni oggi ne ha 57, nella vita è un poliziotto, ispettore della polizia postale. Volto noto nei quartieri di Bolzano dove, una volta al mese, va a spiegare agli anziani come difendersi da truffe e raggiri di ogni tipo. Quel racconto di Nella Mascagni, partigiana e internata, attivista comunista, a dei bambini di sette, otto anni (altri tempi, oggi è già tanto se non stanno incollati ad un telefonino e scendono a giocare in cortile), gli mosse qualcosa dentro. Una specie di vocazione. “Ho iniziato a leggere come un matto, Rigoni Stern, Primo Levi, e ad ascoltare molto attentamente i racconti dei vecchi. All’inizio per immagazzinare memoria viva. Poi col desiderio di mettere su carta quei ricordi, perché altri potessero conoscerli e non andassero perduti”. Questa necessità è maturata lentamente, come un buon vino, quando, alla fine degli anni Novanta, conosce Umberto Montini, un bolzanino secco e ombroso, reduce dalla campagna di Russia, catturata dall’Armata rossa e sopravvissuto alla prigionia. “Mi affidò i suoi appunti, le lettere, le foto poco prima di morire nell’agosto del 2003”. Corrado Palmarin ci lavora sopra per anni. Studia, si documenta, verifica scrupolosamente date, nomi, luoghi. Ore e ore in archivio e biblioteche. Alla fine a steso un manoscritto, che l’anno scorso ha vinto il Premio Acqui Edito Inedito sez. Romanzi Storici e oggi è un bellissimo libro “In mezzo ai girasoli e sotto le betulle” che si può acquistare nelle librerie e online. Lo abbiamo invitato alla nostra riunione di redazione per saperne di più.
Palmarin, chi era Umberto Montini?
Uno di quei soldati ragazzini, di 18, 20 anni partiti nell’estate del ’42 per il fronte orientale. Facevano parte dell’Amir, l’armata italiana che ha combattuto sul Don.
Era consapevole del disastro imminente?
I genitori sì, lui no. Era entusiasta, anestetizzato dalla propaganda, come, del resto, tutta quella generazione nata e cresciuta sotto il fascismo. Sognava la gloria e la vittoria veloce. Era convinto che si sarebbe trattato, non dico di una passeggiata, ma di una cosa breve.
Invece?
Invece, si ritrova su una tradotta per il Don, che a fatica sa dove sia. E poi nell’inferno bianco del dicembre del 1942.
L’Armata rossa che sfonda le linee italiane e tedesche…
Una tragedia di proporzioni bibliche. Gli italiani tentano la ritirata in un deserto di ghiaccio e neve. Sono disperati, male vestiti, male equipaggiati. Esposti a temperature sotto lo zero. Umberto vede i compagni crollare nella neve e lasciarsi morire. Cede anche lui. Non vuole più proseguire. È un altro bolzanino Guido Marschik, più grande id lui di quattro anni, ai suoi occhi un veterano, a tirarlo su, caricarselo sulle spalle e salvarlo. Trascorrono nove giorni di marcia, con qualche fortunosa sosta nelle isbe dove ricevono qualcosa da mangiare dalle donne ucraine. Si ritrova con i piedi e le mani congelate.
Poi cosa succede?
Lui e Marschik vengono catturati dai russi. Comincia così la “marcia del Davai”, verso est, verso i gulag. Davai significa Avanti Avanti. Era l’esortazione/imprecazione che i russi urlavano ai prigionieri, spingendoli con il calcio del fucile. Montini stava malissimo. Era stato colpito dalla scheggia di una granata. E rischiva l’amputazione delle mani per congelamento.
Ma grazie a Marschik non cede…
Tiene duro. Arrivano a uno scambio ferroviario. vengono divisi. Montini sale su un carro merci diretto verso un ospedale militare sovietico. Guido finisce invece in un campo di prigionia da cui non tornerà più, muore di tifo petecchiale. Ma questo si verrà a sapere molti anni dopo. La famiglia ha sperato fino all’ultimo che fosse vivo.
E Montini?
Il viaggio verso l’ospedale è un incubo. I soldati italiani muoiono come mosche per le ferite, il freddo, le malattie, la fame. Arrivati a destinazione i cadaveri vengono impilati su cataste di corpi congelati.
Montini però sopravvive
Sì grazie alla sua conoscenza delle lingue (viene utilizzato come interprete anche con i prigionieri tedeschi) e all’aiuto di una dottoressa che lo cura e gli salva mani e piedi. Rientra in Italia dopo tre anni di prigionia nel ’46. È un uomo di 24 anni distrutto nella testa e nel fisico. La guerra lo ha cambiato per sempre. Rimane però in lui il desiderio di ringraziare la dottoressa che gli aveva salvato la vita. Una ricerca che durerà cinquant’anni.
Fino agli anni Novanta.
Sì con la perestroika di Gorbaciov, intravede la possibilità di rintracciare finalmente la dottoressa, si ricorda il nome Polina.
Cosa fa?
Muove mari e monti, prima a livello locale con appelli sull’Alto Adige e alla Rai di Bolzano. I giornalisti Rai Franco Sitton e Sandra Bortolin gli danno una mano. registrano un appello in russo, lingua che Montini parlava correttamente. Lo mandano in onda sulla rete nazionale. Poi Demetrio Volcic, storico corrispondete da Mosca, riesce a farlo trasmettere anche sulla tv di stato sovietica. All’appello rispondono il figlio della dottoressa Polina e un’infermiera che lo aveva curato in quell’ospedale. Polina purtroppo era morta anni prima.
Trova comunque un legame con il passato
Sì Inizia una fitta corrispondenza in russo con l’infermiera, ricostruiscono quel periodo quasi giorno per giorno. Riesce a ricostruire la storia della donna a cui doveva la vita. Agli inizi degli anni Duemila, mi chiama e mi affida tutto. Persino una tabacchiera che gli regalò un ufficiale tedesco prima di morire. Montini voleva che questo libro fosse scritto e che fosse il più preciso e fedele possibile. Poco tempo dopo, nell’agosto del 2003, è morto. Le lettere mi sono servite per dare una scansione alla narrazione.
All’inizio del libro c’è il racconto dei bolzanini che ascoltano la dichiarazione di guerra di piazza Walther il 10 giugno 1940…
Sì. Umberto lavorava lì vicino. Aveva un ricordo molto preciso. Era apprendista dai fratelli Bondy, una famiglia di commercianti ebrei molto nota. I Bondy avevano due negozi: uno in centro, di pellami e uno di fiori in via Torino. Erano molto legati a Umberto. Con le leggi razziali, capirono che Mussolini era pericoloso quanto Hitler. Decisero di emigrare in Cile. Gli dissero: “Umberto vieni con noi., scappa dalla guerra da questa dittatura”.
E lui?
Voleva loro molto bene, ma rifiutò. Era imbevuto di idealismo giovanile, aveva fatto tutta la trafila da balilla ad avanguardista. Nonostante il padre fosse antifascista e amico del sindacalista comunista Silvano Flor, che spesso andava a trovarli a casa facendo arrabbiare la madre. temeva ritorsioni.
È vero che Montini non festeggiava mai il Natale?
Sì. Sotto le feste si chiudeva in stanza e non voleva vedere nessuno, neanche la moglie e i figli. Usciva solo dopo la befana. Il giorno di Natale del 1942 l’autocarro su cui viaggiava con i suoi compagni venne centrato da una granata. Morirono tutti tranne lui. Una scheggia gli si conficco nella schiena. Se la tenne per tutta la vita. Quel giorno si disse: “Se sopravvivo, non celebrerò mai più il Natale”. E così fece.
Intervista di Luca Freggina su “Alto Adige” del 6 luglio 2023