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Amaro come il miele

VAGABONDO

“Vi ho mai parlato di nonno Fedele?”

Fido, il vecchio bracco con una zampa bendata stava per raccontare una bella storia ai cuccioli; Lilli aveva appena rivolto occhi dolcissimi al suo Vagabondo che le aveva appena risposto, gorgheggiando tenerezza.

“Com’è dolce sognarrr…

e lasciarsi cullar…

nell’incanto dee-ela notte”

Alex sentì che le cose stavano mettendosi bene per l’intera troupe dei cani.

Ormai era scesa la sera.

Le ore erano passate adagio e lui le aveva lasciate fare, limitandosi a interpretarne le bizzarrie dai giochi di luce e di ombre che filtravano attraverso il lungo lucernaio contro il soffitto.

In quel modo aveva creduto di capire che, da quando lo avevano ficcato lì, c’era stato il sole e poi se ne era andato per dare spazio a una rincorsa di nubi.

Alla fine doveva essersi riaffacciato il sereno.

Proprio sul confine del mondo doveva aver saldato il cielo e la terra in un’estrema colata di fuoco, a giudicare dalla vivacità improvvisa che s’era stesa contro la volta.

Quando aveva notato che dal finestrone lassù incominciava a entrare la sera, di nuovo Alex non aveva voluto opporre resistenza.

Il fatto era che non aveva più né un briciolo di forza né un grammo di voglia per resistere.

Così era rimasto inerte, senza muovere un dito, senza accendere la luce, finché il buio di fuori s’era mescolato con quello di dentro e, insieme, erano diventati tenebra che aveva mischiato le cose, gli oggetti, persino le poche idee che, a missione compiuta, gli restavano in testa.

Una tenebra ben diversa da quella piena d’allegria che il piccolo televisore stava trasmettendo: punteggiata di fiocchi di neve e di alberi di Natale illuminati e distesa sopra la casetta in cui Vagabondo cantava in onore dei piccoli nati da poco.

Il posto poteva essere una cantina, o un seminterrato dove quelli della questura, fin dal mattino, l’avevano rinchiuso sotto stretta sorveglianza, appena dopo avergli messo le grinfie sul collo.

Il maledetto mattino di quel primo dell’anno.

Sotto terra, sì, ma c’era la branda, il lavabo, un armadietto, un tavolino con sedia in mira al lucernaio; c’era perfino una microTv su una specie di comodino contro il muro di fronte al letto.

E sul piccolo schermo, quando non s’era perso a guardare la danza delle ore contro le pareti, aveva visto scorrere di tutto.

Dapprima il Concerto di Capodanno, in diretta da Vienna. Più o meno a metà concerto gli avevano portato da mangiare ma lui non ne aveva voluto sapere perché, se era vero che sentiva un languore ostinato mordergli lo stomaco, era anche più vero che sullo stomaco, in quei momenti, gli ballavano ancora due cadaveri e mezzo, di cui uno in particolare lo faceva soffrire e gli toglieva ogni desiderio di pranzare.

Finito il concerto, era venuto i turno di Stanlio e Ollio, più o meno all’ora di merenda e alle prese con un organino che non funzionava; poi, quando già i contorni degli oggetti si erano fatti confusi, era toccato ad Asterix il Gallo.

Era successo quando un guardiano dalla faccia nuova gli aveva allungato la cena che aveva fatto la stessa fine del pranzo.

Dopo era iniziato “Lilli e il Vagabondo” che adesso era alle ultime sequenze, già dopo i titoli di coda. Il buio della stanza era sempre più buio e sul nero, sul silenzio, galleggiava, assolutamente isolata e in rilievo, la parola “Fine”.

Ad Alex venne in mente una banalità: che prima di quella parola, dietro, comunque e dovunque vadano le cose c’è, anzi, c’è sempre stata una storia.

Fu quasi automatico per lui che non lo avrebbe proprio voluto, ripensare alla propria.

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