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Una notte relativamente strana

Genova, venerdì 17 maggio 1895, ore 21:00

Si toccò il labbro superiore arricciando la peluria sotto le dita con soddisfazione. Aveva iniziato a radersi ormai da un anno. Lo faceva una o due volte alla settimana, evitando i foruncoli che l’acne gli aveva stampato sulla faccia. Si alzò un po’ assonnato dal sedile di legno, per riporre la giacca ed il cappello in alto, sulla retina portabagagli e, prima di riaccomodarsi, provò a specchiarsi contro il vetro del finestrino.

“Sì” pensò sorridendo “credo proprio che mi farò crescere i baffi. A papà non dispiaceranno e forse nemmeno a mamma. ma… a lei?”

Ogni immagine che cercava di ficcarsi in testa rimbalzava sul viso luminoso di Ernestina, sui suoi lunghi capelli castani e gli occhi color blu pervinca, profondissimi. L’aveva vista per la prima volta mentre faceva il bagno nel fiume. Lui era lì, sull’acqua del Ticino, mentre faceva il morto ed il cielo d’Italia era un’immensa cupola sopra il suo sguardo. lei apparve d’improvviso, come un angelo sula riva, bellissima, con un sorriso luminoso ed innocente.

Chissà dov’era adesso?

Ciò che invece dispiaceva ai suoi genitori era ben altro e lo sapeva benissimo, inutile negarlo: gli studi non andavano bene. Papà lo avrebbe voluto laureato ingegnere, come lo zio Jacob, perché lo affiancasse nell’attività di famiglia, da un anno trasferitasi in Italia. A Monaco la loro officina elettrochimica era andata discretamente bene fino a due anni prima, quando aveva ottenuto dal Municipio l’onore di illuminare l’Oktoberfest. Suo padre, lodato su tutti i giornali della città, era impazzito di gioia. Aveva comprato abiti nuovi per lui e sua sorella Maja ed un anello con un diamante per mamma Pauline. Purtroppo fu solo una parentesi felice; gli affari iniziarono a mettersi male e papà diventava di giorno in giorno sempre più nervoso. In casa misurava a larghi passi il pavimento della sala, scrollando la cenere della pipa sui tappeti e riempiendo una ciotola di porcellana, comprata al mercato, di fiammifero bruciacchiati.

Poi quel signore, che da qualche mese veniva a casa loro, di solito la domenica pomeriggio, un imprenditore italiano presentato come lo zio Lorenzo, aveva cambiato il destino di tutti. In Italia c’era possibilità di lavorare e papà si era fatto convincere. Nel breve volgere di qualche mese Milano divenne la loro nuova città, anche se lui, inizialmente, rimase a Monaco, ospite di un cugino. Gli mancavano tre anni per conseguire la maturità al Luitpold Gymnasium, una scuola che ben presto avrebbe imparato ad odiare, perché troppo simile ad una caserma, dove stupidi insegnanti lo giudicavano impudente e i compagni antipatico.

Resistette pochi mesi, poi si fece rilasciare dal medico un certificato che attestava un esaurimento nervoso per poter raggiungere la famiglia. Una mossa inutile, in quanto la direzione della scuola, nel frattempo, lo aveva espulso perché di grave disturbo per gli altri allievi.

Papà si era arrabbiato tantissimo, ma lui, il 29 dicembre 1894 era partito alla volta di Milano, deciso a farla finita con la Germania. Chiese di poter rinunciare alla cittadinanza tedesca e promise ai suoi genitori che si sarebbe preparato, da solo, per affrontare, in autunno, l’esame di ammissione al Politecnico di Zurigo. Il successivo trasferimento di tutta la famiglia a Pavia aveva creato altri problemi.

E quel problema, da qualche mese, si chiamava Ernestina…

Le case intorno alla stazione erano il suo ultimo sguardo su genova. Era arrivato al mare qualche giorno prima, in compagnia di Otto, un ragazzo tedesco che nelle vacanze estive abitava a Pavia appena una casa dopo la sua. Otto Neustätter più vecchio di lui di qualche anno, medico specializzando in oculistica, in gioventù era stato ginnasta e podista, con buoni risultati. Magro, secco e allampanato, due baffoni neri spioventi e la dinamite nei garretti, un mese prima gli aveva proposto una sgambata a piedi, così lui la definiva, per vedere il mar ligure. Albert pensò che fosse un’ottima occasione per andare a trovare lo zio che abitava a Genova ed accettò.

Raggiunto in treno Casteggio, i due preso il tram fino a Voghera; poi a piedi erano passati da Bobbio, Ottone e Torriglia. Una faticaccia, ma ne era valsa la pena. Le colline e le montagne dell’Appennino gli erano sembrate bellissime, aspre e forti. Avevano un sapore crudo ma buono, fatto di cime arrotondate, calanchi che aprivano la terra come una ferita, faggi e castagni silenziosi a delimitare pascoli puliti ma un po’ avari. La sera sostavano nelle locande, mangiando polenta e formaggio Montebore e bevendo un vino bianco chiamato Timorasso. Poi dopo il passo del Creto e Bavari, l’immenso azzurro del mare si era aperti dovanti ai loro occhi.

“Lo stesso azzurro dei suoi occhi!” biascicò piano per non infastidire gli altri viaggiatori.

Guardò ancora fuori.

La stazione di Principe era stata costruita di recente e inaugurata alcuni decenni prima. L’edificio era costituito da una volta di acciaio, a campata unica, impostata su corpi di fabbrica laterali. Sotto la campata, circondata di fronte e lateralmente dagli edifici per i passeggeri, arrivavano dieci binari.

“Oh, finalmente. Si parte!” mormorò.

Otto aveva deciso di fermarsi ancora a Genova, lasciandolo solo nel viaggio di ritorno verso casa. Si sedette e guardò dalla parte opposta. La sala d’aspetto di terza classe era lì, oltre il finestrino, ferma, immobile. Con un gesto automatico si girò nuovamente.

“Ah, no, siamo fermi! È l’altro treno che si muove!” e rimase lì, come trafitto da una freccia. “Ma guarda un po’…”, masticò ancora fra i denti. Iniziò ad inseguire un pensiero che tuttavia non riusciva a fermare nella sua necessaria nitidezza. Si alzò di scatto e per poco non perdette l’equilibrio. Il treno si era scosso mettendosi in moto. La signora seduta di fronte si lamentò perché le aveva pestato un piede.

-Io vi debbo chiedere scusa- s’affrettò a dire. -Sono generalmente un po’ goffo-

Il suo italiano era discreto, ma l’accento non lasciava adito a dubbi circa la provenienza. La signora sorrise benevola, inclinando il capo da un lato.

-Voi non siete italiano!

-No, sono tedesco, ma abito a Pavia- sussurrò mentre si risiedeva con a dovuta cautela. Guardò negli occhi la compagna di viaggio: -Scusate, avete un lapis e un pezzettino di carta, per favore?

-Certamente- rispose lei, fissandolo. -Fatemi cercare nella borsetta… dovrebbe essere qui… ecco la matita, e un foglietto. Gli ho sempre con me. Sono una giornalista. Dovete scrivere?

-Ja, vorrei scrivere un pensiero che ho in testa!

-Pensieri? Ma quali pensieri potrebbe avere un bel ragazzo come voi?- civettò la donna colorando di un rosso fiammante le guance del ragazzo. Lui si accomodò con i gomiti puntati sul tavolinetto che nel frattempo aveva fissato sotto il finestrino, impugnò il lapis quasi con violenza e sprofondò la faccia sulla carta.

-Nulla di importante, sono solo idee…- sospese la frase aria come se niente intorno esistesse. Contrasse la bocca in una morsa, mentre senza accorgersene, iniziò a respirare velocemente.

“Newton dice che le misure di lunghezza e di durata effettuate da due osservatori diversi risulteranno identiche; due eventi che hanno luogo nello stesso punto secondo un osservatore, avranno luogo nello stesso punto secondo qualsiasi altro osservatore; e due eventi giudicati simultanei da uno di essi, saranno simultanei per tutti. Ma è vero? Se io scrivo F’=m a’ le equazioni di Maxwell non sarebbero invarianti, né covarianti rispetto alle trasformazioni di Galileo!”

Era pallido, la matita si era spuntata contro il foglio, mentre la mina rotolava per terra. Le mani gli tremavano e una goccia di sudore si allargò sulla carta.

“E dunque, tutto quello che abbiamo imparato fino ad ora… non… Insomma: è falso?”

-Signore, vi sentite bene? Signore!- quasi gridò la donna.

-Ah… – si riscosse lui abbozzando un mesto sorriso di circostanza- Sì, certo, sto bene. Chiedo scusa nuovamente.

Cercò di calmarsi ma quell’intuizione lo tormentava. Sentiva freddo e si infilò la giacca, sollevandone il bavero fino alle orecchie. Intanto il treno, passati gli ultimi sobborghi di Genova iniziava a salire verso la montagna.

-La prima fermata è Novi Ligure- disse quasi materna la giornalista. -Forse è meglio che voi scendiate e vi facciate visitare da un medico!

-Grazie, ma io sono una bestia. Ci vuole come si dice in italiano? Ah ecco, sì… un veterinario, per me!- rise per la battuta, ma di fronte alla faccia perplessa della sua compagna di viaggio, si ricompose piano piano, chiudendo la bocca in un sorriso e, imbarazzato finse di riconcentrarsi sul foglio. Fuori, mentre il treno sferragliava rauco dietro la vaporiera, il sole era tramontato basso e rosso dietro le montagne, tra nubi vaporose, lasciando il passo alle prime ombre della notte.

“Come sarebbe bello se Ernestina fosse qui con me… la porterei lassù su quella cima e per lei suonerei il mio violino. Danzerei con l’archetto sulle corde tutto il mio amore ideando accordi mai composti, io, solo io per lei, lanciandoli in volo tra gli alberi vestiti dalla luna. Ah, mia dolcissima ragazza!”

-Si mette al brutto!

-Come dite, prego?

-Dico che al di là del passo dei Giovi fa brutto tempo- e la donna indicò con l’indice il crinale appenninico, battendo ritmicamente con l’unghia il finestrino.

Effettivamente da lì a poco un’acqua torrenziale percosse metallica il tetto del vagone. Fuori, oltre i finestrini coperti da una spessa condensa, l’ombra fioca di poche lanterne indicavano qualche stazione minore spezzando a stento un buio sempre più cupo. Riuscì a intravvedere alcune insegne di paesi e località: Piano Orizzontale dei Giovi, Busalla, Borgo Fornari, Ronco Scrivia, Isola del Cantone, Pietrabissara, Rigoroso, Arquata Scrivia. Poi, improvvisamente nella sua mente affiorò un ricordo.

-Sapete, signora, che adesso passiamo dentro una antica città romana, costruita nel primo secolo dopo Cristo?

-Ma davvero? E come fate voi a saperlo?

-Ah, io leggo tanto. Theodor Mommsen, uno storico tedesco, parla di questa città in una sua pubblicazione. Gli scavi per costruire la ferrovia hanno permesso di ritrovare, poco più di quarant’anni fa, questa città che alcuni definiscono la nuova Pompei del Nord d’Italia. Si chiama Libarna.

-Mai sentita nominare- sentenziò lei, scuotendo dolcemente la testa.

-Ah, voi italiani! Scavate nell’orto sotto casa e trovate l’elmo di Attila… molto ricchi di storia!

-Sì, dite bene, ma purtroppo non sappiamo valorizzare le nostre cose- disse la giornalista con una punta di amarezza.

-Peccato che ora è buio, non si vede niente… pare che tante persone portino via da qui capitelli e colonne per costruire nuove abitazioni, e nessuno controlla. Credo che ci vorranno molti anni prima che un sindaco o, come dite voi Stadstrat? Ecco sì… un assessore provi interesse per questa meraviglia. Libarna di trovava sulla via Postunnia, la strada che da Genova raggiungeva Aquileia. Era una specie di grosso centro commerciale con terme, teatro e stadio.

-Adesso non mi sembra che ci sia un granché. Ah, ecco, siamo… vediamo un po’… sì, Serravalle Scrivia, un piccolo borgo, mi pare…

-Serravalle, sì… Serravalle Scrivia! Battaglia di Novi fra gli austriaci e i russi contro i francesi. 15 Agosto 1799. Qui, in questo paese, fra i soldati napoleonici combatteva pure Ugo Foscolo.

-Il Foscolo? – cinguettò incredula la donna.

-Sì, il vostro grande poeta. Io a Pavia abito in una strada a lui intitolata. Esiste un poemetto di tal Luigi Cerretti, già professore di eloquenza prima di Ugo, proprio a Pavia, in cui si narra di un Leandro italiano fra le truppe francesi, che si fa scrivere lettere d’amore alla propria amata Bice, proprio dal Foscolo. Bice ammirata e commossa, tenta di raggiungere il fidanzato passando fra le linee nemiche ma è uccisa per un tragico errore proprio da Leandro, di vedetta qui sullo Scrivia. Costui, sconvolto, si uccide! Una tragedia terribile! Questo fatto successe veramente, ma non sullo Scrivia, bensì sulla Trebbia, e Cerretti si è preso la libertà poetica di trasferirlo qui!

-Ma guarda, conoscete pure il Cerretti! Anche io scrivo, sapete? Ma, come vi dissi, sono per lo più una giornalista. L’informazione sta diventando sempre più importante, al giorno d’oggi.

-Avete ragione signora…- annuì il giovanotto. -Signora…

-Effettivamente, non ci siamo ancora presentati- disse la donna allungando una mano che il ragazzo con delicatezza strinse, alzandosi prontamente e producendosi in un inchino un po’ impacciato.- Mi chiamo Matilde Serao. E voi?

-Io? Albert, Albert Einstein!

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