LA NOTTE
Ora che l’oscurità stava quasi per giungere, Marta andò a prendere il lume presso il camino e, passando davanti alla finestra aperta, gettò un’ultima occhiata al crepuscolo, che sembrava tingere il cielo di un colore sanguigno da cui emergeva netta la forma scura della torre.
Ebbe un fremito e posò la candela sul tavolo, sedendo tremante sulla vicina sedia.
Le era sembrato per un istante che fuori, nella strada deserta su cui si affacciavano soltanto mura frastagliate, risuonasse uno scalpiccio pesante, come di un gruppo di uomini che avanzasse impetuosamente.
Rimase seduta per un po’ nel buio, lasciando che il palpito del suo cuore tornasse a quietarsi, gli occhi fissi sulla fiammella fumosa della candela.
Poi vide i libri del padrone sul tavolo e ricordò gli ultimi versi che le aveva letto prima di ritirarsi nella sua camera:
…Un Ocean si stende
per ogni lato, tenebroso, informe
ch’ogni confine, ogni misura inghiotte,
dove profondità, lunghezza, ampiezza,
e tempo e loco s’inabissa e perde.
Solitamente non capiva il significato dei brani che le leggeva, ma aveva una buona memoria ed il padrone si stupiva sempre e sorrideva anche nel sentir ripetere con facilità le parole appena pronunciate.
Ora, in quella notte calda, le sembrò, per una volta, di aver afferrato il senso di quelle immagini o, piuttosto, fu come affacciarsi per un istante su quella voragine. Ma se ne ritrasse subito, avvertendo il pericolo di un turbine che l’avrebbe travolta.
Una brezza leggera soffiò dalla finestra, portando un po’ di refrigerio, ma la fiamma della candela, dopo un ultimo guizzo, si spense, e fu soltanto la notte, fuori, dove anche il profilo della torre si era dissolto, e dentro.
La stanchezza che alfine la prese, impedì che altre ombre turbassero quel buio e Marta si coricò addormentandosi subito.
A.D. 1693
INCHIESTE
“Si è veduto e ritrovato un uscio, ossia porta aperta, nella quale si vede esser stati dati quattro o cinque colpi di mazza, o cosa simile, per essere molto marcato ed alquanto volto all’asse, ossia parte di detto uscio vicino alla morsa e serratura, nella quale morsa pure si vedono due o tre segni di marcatura e colpi di mazza, o altra cosa tagliente, e detta serradura era slogata, e con la crica stortagnata, per il che si vede, come li infrascritti Testi hanno giudicato, esser stato detto uscio battuto, e forzatamente aperto…”
Giovanni Francesco Arcasio, notaio di Bistagno, Pretore e Podestà di Terzo per l’Illustrissimo Conte Guido Avellani ascoltava in silenzio le parole che il notaio Guido Mignoto, cancelliere della Cancelleria episcopale di Acqui, leggeva lentamente e ad alta voce.
“…e dopo esser entrati nella stanza fu visto e trovato esser ivi vicino al camino del fuoco un cadavere disteso morto coperto con lenzuolo, che fu riconosciuto esser della fu Marta, serva del reverendo Giovanni Antonio Ivaldo, il cui corpo ovvero cadavere venne ritrovato in un’altra stanza, in cui fu trovata una cassetta, esistente sopra a un tavolino aperto con la chiave dentro la serradura, dalla quale è stato rubato ed esporto via quantità di denari e libri di Maneggio dell’Agenzia che faceva detto Reverendo Ivaldo, e massime li libri del corrente anno 1693, come infatti, guardato e veduto in detta cassetta, si sono ritrovati altri libri di Maneggio, delli anni 1690, 91, 92, eccetto quelli dell’anno corrente, e si è veduto e ritrovato anche, su detto tavolino e vicino a detta cassetta, una borsa di tela morea longa un palmo, vota, e nella quale il Reverendo Ivaldo era solito tener li denari che riscuoteva del pedaggio di questo luogo”.
Talvolta volgeva con discrezione lo sguardo verso i componenti del piccolo gruppo che si era raccolto nello slargo antistante le scale della casa del fu Reverendo Ivaldo: l’avvocato fiscale della Curia episcopale Canonico Carlo Guglielmo Ciconia, il chirurgo acquese Giacomo de Alessandri, il nunzio pubblico terzese Antonio Garbarino, il parroco di Terzo don Francesco Caira, il luogotenente di terzo Mario Augerio ed i testimoni, il Canonico acquese Pietro Iapino ed i terzesi Giorgio Branda e Sebastiano Francesco Domino.
“Si è veduto e rirovato un gran lago di sangue, con una cosa che pare un cadavere ossia uomo morto disteso in terra giù per il longo, sopra il solaro e dirimpetto all’uscio, presso l’ingresso di detta stanza, coperto con un lenzuolo quasi tutto insanguinato ed essendo detto cadavere rivoltato faccia in su, avendo soltanto le mutande, si è visto e ritrovato esser cadavere d’un uomo di statura mediocre, con i capelli rosegni, e corti all’usanza dei Preti”.
Era la mattina di martedì 21 luglio del 1693: si preannunciava un’altra afosa giornata estiva e lo spettacolo di quei corpi martoriati e coperti di sangue rappreso e maleolente aveva turbato i presenti, come si poteva leggere sui volti pallidi e sudaticci, anche se i sacerdoti non erano neppure entrati nella stanza in cui giaceva il corpo di don Ivaldo ed era toccato al podestà ed al chirurgo esaminare i cadaveri, voltati e rivoltati dal povero nunzio Garbarino.