Alla bambina che nascerà a Ricaldone dopo la mia morte
13 agosto
Esther è il mio nome.
Sono certa di questo.
Di questo e di poco altro poiché la mia memoria, con il trascorrere del tempo, è diventata fragile e inconsistente come la pelle delle mie mani.
Da molto tempo (?) trascorro gran parte delle mie giornate seduta nella vecchia poltrona di mio marito, che Dio lo abbia in gloria, posizionata davanti alla grande finestra affacciata sulla valle.
Sono nata, vissuta e, a Dio piacendo, morirò a Ricaldone, in questa zona definita Case Rotte, in questa casa, che mi ha vista figlia, sposa, madre.
Non ho mai lasciato Ricaldone e, se escludiamo un breve periodo in gioventù, non ho mai desiderato farlo.
La bellezza delle nostre colline coperte di vigneti è sempre riuscita a commuovermi, poiché vedo nel lavoro dell’uomo il riflesso della creazione divina.
Ricevo raramente visite o forse le dimentico.
17 agosto
Per un atroce scherzo della vita, non so se opera del diavolo o di un dio burlone, ricordo con una nitidezza esasperante i giorni lontani, ed in maniera così acuta da percepire odori e rumori definitivamente scomparsi da questo paese: il cigolio delle ruote del carro sull’acciottolato, le voci a volte alterate degli uomini fuori dall’osteria, le chiacchiere delle donne che, in gruppo, si recano al forno a cuocere i pani per la settimana.
Ormai questo è diventato un paese silenzioso, si rianima solo d’estate con l’arrivo dei villeggianti, ogni anni sempre meno, e con sempre meno bambini.
Sii paziente con me, sii paziente, poiché continuo ad assopirmi, e ad ogni risveglio mi è sempre più difficile ritrovare il filo del racconto, e non sempre è sufficiente rileggere ciò che ho scritto per ritrovarlo; i ricordi rimbalzano da una parete all’altra della mia mente come gatti indemoniati, lasciandomi a volte frustrata e priva di energie.
Queste mie memorie, presumo, avranno pause, a volte di giorni, altre di settimane o addirittura di mesi. Questo perché, e se vivrai a lungo come me lo scoprirai, i giorni non sono tutti: in alcuni sento corpo e mente lucidi e pronti ad obbedire ad ogni mio ordine, altri – ahimè più numerosi – entrambi sembrano ribellarsi ad ogni mio desiderio, riducendomi ad un corpo inerte capace solo di bisogni capace solo di bisogni strettamente fisiologici – ringraziando Dio la mia mente deve essere ancora in grado di percepire gli stimoli, dato che fino ad oggi, al ritorno dai miei “viaggi” non ho mai dovuto cambiarmi la biancheria.
Non esiste gioia più grande per una vecchia come me del riuscire a ricordare il tempo passato ma non, come erroneamente si crede, perché la gioventù è un’età dorata, priva di pensieri e preoccupazioni, bensì perché siamo convinti essere la più lontano della morte.
Guardiamo sempre al passato perché davanti ai nostri occhi abbiamo sempre meno futuro.
Temo non passerà ancora molto tempo, prima che la somma complessiva dei momenti di veglia e di relativa lucidità, divenga un puntino insignificante nella mia giornata, e quando ciò avverrà, essendo io la persona più vecchia del paese, si perderà la memoria di avvenimenti antichi che verranno cancellati dall’oscurità del tempo. Per evitare che ciò accada, o almeno per ritardarne il momento, affido a te queste mie memorie poiché, forse per la vendetta di un dio feroce, non esiste più nessuno della mia stirpe.
Lascio a te l’onore e l’onere di decidere il destino di queste pagine.
19 agosto
I vecchi non hanno mai nulla da fare eppure, come sicuramente avrai modo di notare, non possono perdere tempo; l’aspettare il proprio turno dal medico o dal farmacista crea, nelle nostre vecchie anime, un turbamento difficile da spiegare, un’ansia incontrollabile come se, rimanendo fermi a lungo nello stesso luogo, si fosse più facilmente raggiungibili dalla morte.
Impossibile per creature appena affacciate alla vita capire questo rapporto ambiguo che, con il trascorrere del tempo, finisce per instaurarsi tra noi umani e Colei che, romanticamente, definiamo la Signora dal Nero Mantello.
Un tempo queste strade risuonavano delle risate e giochi dei bimbi, e la nostra vita sembrava destinata a durare per sempre immutabile; vivevamo seguendo principi vecchi di centinaia di anni e, se si esclude una parte di imbarazzanti socialisti tra cui mio marito, la vita della comunità ruotava intorno al nostro parroco e alla chiesa.
Vivevamo una vita che oggi sarebbe dai più ritenuta noiosa, ma per molti ricaldonesi, quel ripetersi continuo di gesti e volti e parole era rassicurante: ti alzavi ogni mattina sapendo esattamente come si sarebbe svolta la tua giornata, sapevi che avresti incontrato e che discorsi avresti fatto, sapevi o immaginavi chi alla festa del paese avrebbe ballato e chi si sarebbe ubriacato, come sapevi, anche se con tutti fingevi di ignorarlo, chi una volta tornato a casa ubriaco avrebbe picchiato la moglie.
Tutto prestabilito, come un copione teatrale, mai una sorpresa o un imprevisto ed io, irrequieta come tutti i giovani, in quella tranquillità a volte mi sentivo soffocare, sognando la città.
La domenica andavamo a messa e per l’occasione concedevamo spazio alla vanità indossando il nostro abito migliore, più interessate ai ragazzi della panca opposta che alla predica del parroco; eravamo come giovani puledri affamati di libertà, ma il tempo passa, l’adolescenza fugge via in un attimo e con essa lo spirito ribelle; la fantasia, schiacciata dal peso della realtà, abbandona le ali e i suoi voli pindarici sostituendoli con gambe sempre più malferme ed incapaci di portarla lontano.
Un battito di ciglia e sei all’altare, accanto a te Sebastiano, quel ragazzo dai riccioli neri e dalle idee bislacche, divoratore di libri e di sogni.
Un altro battito di ciglia e ti ritrovi a passeggiare per il paese lenta e accaldata dietro ad una pancia monumentale e i battiti di ciglia non si contano più, nasce Lucia, muove i primi passi, inizia la scuola, frequenta la parrocchia.