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Marco Secondo Marco

Introduzione

Giuseppe Balduzzi, alias Marco Secondo, lo incontrai per la prima volta nel 2011, una mattina di primavera, nel villino di Nervi dove viveva con la moglie. Pochi giorni prima, al telefono, avevamo fissato l’appuntamento. Non faticai troppo a trovarlo: in zona residenziale, l’edificio, su due piani, il giardino ampio e ben curato, era quasi in fondo alla via. Marco, amichevole, una punta di sussiego, mi presentò alla moglie che, mentre lui mi faceva accomodare in uno studiolo, si ritirò al piano superiore. Alto, deciso nei modi, reso appena vulnerabile da una leggera sordità, aveva ottantanove anni e io ventidue. Cosa c’ero andato a fare a casa sua?

Non più di due mesi prima avevo conosciuto e intervistato Giovanni Ponta (Gianni, 1926-2015) che di Balduzzi era stato compagno in montagna. L’intervista si era svolta presso l’Istituto ligure per la storia della Resistenza (ILSREC), che avevo a lungo frequentato per la stesura di “Bicicletta partigiana”, una sorta di guida ciclistica pubblicata dalle edizioni Joker nell’aprile del 2010, grazie alla quale avevo cominciato a prendere confidenza con le vicende del partigianato genovese. Gianni era uno spontaneo e con lui il ghiaccio si era rotto ben presto. Dopo quella prima volta ci incontrammo ancora: per strada (abitavamo entrambi a San Fruttuoso, a trecento metri di distanza), all’Istituto storico, in occasione di alcune commemorazioni e, perlopiù, a casa sua.

Quando intervistai Gianni all’Istituto, avevo da non più di quattro mesi intrapreso una ricerca che non sapevo dove mi avrebbe portato. Mi ero messo in testa che libri e documenti non potevano bastare a conoscere la Resistenza: perché non verificare se in giro fosse rimasto ancora qualcuno capace (e felice) di condividerne il proprio ricordo?

Sono passati sessantacinque anni, pensavo. Saranno tutti morti. Gianni, invece, era vivo. A farmelo conoscere era stata Roberta Bisio, responsabile dell’archivio ILSREC, alla quale avevo espresso il mio desiderio di parlare con qualche vecchio partigiano. Gianni m’aveva subito preso a ben volere. Era stato sincero sin dal primo incontro. Se vuoi saperne di più devi andare da Marco Secondo, mi aveva detto. In val Borbéra era il capo del SIP, il servizio d’informazioni e polizia della divisione Pinan-Cichéro: lui sa tante cose. Così, annunciato da Gianni, avevo telefonato a Marco: venga pure una mattina a casa mia, aveva risposto.

Trascrivo dai miei appunti. “Nervi, 13 maggio 2011, incontro con Giuseppe Balduzzi, non registrato per ritrosia dell’interlocutore. ‘Posso registrarla?’. La faccia si fa muro”. Non avevo fatto nemmeno in tempo a tirare fuori il registratore. Noncurante, avevo provato a insistere. Sempre dagli appunti: “Sa, con Ponta ho registrato, con altri no…”. Come a dire: se le fa piacere, bene, altrimenti a me non cambia… La faccia era rimasta muro. Ancora dagli appunti: “Ormai ho capito: è no. ‘Ad ogni modo possiamo registrare la prossima volta’. ‘La prossima volta’, ha detto”.

La prossima volta” era stato no, e poi di nuovo no, e no pure la volta dopo ancora. Sì, perché da Marco ero ritornato più volte: un’altra nel 2011, una nel 2012 e ben quattro nel 2013, complice una ricerca che stavo effettuando in merito a un paio di disarmi operati in valle Scrivia nell’estate del 1944 dai partigiani garibaldini della divisione Cichéro ai danni di altre bande di diversa origine e rappresentanza politica e che operavano sul loro stesso terreno. Marco aveva analizzato nei dettagli il testo che gli avevo sottoposto e si era prodotto in una critica puntuale utile ora ad approfondire la figura di un protagonista, ora a sottolineare un concetto, ora ad evidenziare una particolarità della vita partigiana. Ho scritto pochissimo, mi disse una volta – era la verità –, ma queste cose gliele racconto (all’epoca mi dava ancora del lei) perché ci sia un giovane che le sappia, e vedo che assimila bene; ché non finiscano nel dimenticatoio.

Ero poi tornato a casa di Marco altre due volte, nel corso del 2015, a cavallo della morte di Gianni.

La prima, per consegnargli copia del “Piccolo memoriale partigiano” di Adriano Vanzetti (1930-2018), pregevole opera del più giovane membro della Missione Merìden, paracadutata nel Nord Italia nell’estate del ’44 e composta in gran parte da giovani studenti genovesi che dopo l’8 settembre 1943 erano partiti per il Sud intenzionati ad arruolarsi nel Regio Esercito per combattere i tedeschi e avevano finito per essere addestrati in Puglia e in Algeria dagli americani in vista del loro impiego dietro le linee nemiche. Vanzetti aveva pubblicato il suo memoriale alla fine del 2013, ma io lo avevo rintracciato e intervistato già all’inizio di quell’anno. In quell’occasione mi accennò al suo lavoro, ormai pronto per la stampa, e mi chiese un contatto a Genova: lo indirizzai verso la Casa della Resistenza di Bolzaneto, che dapprima lo invitò alla Casa a presentare il memoriale (in tale rivide Marco dopo settant’anni) e in seguito lo accompagnò in val Borbéra a rivedere i luoghi della sua resistenza.

La seconda volta, di poco successiva al funerale di Gianni, era servita ad entrambi a ricordare l’amico appena scomparso, e a me per consegnare a Marco copia di alcuni documenti a firma “commissario Balduzzi” che risalivano all’epoca della polizia partigiana (1945-1947) e che avevo recuperato fra le pieghe del Fondo Questura, conservato presso l’Archivio di Stato di Genova.

Dopo il 2015 e la morte di Gianni non vidi più Marco per quattro anni, durante i quali il mio lavoro di raccolta delle memorie orali degli ex partigiani della Sesta Zona operativa ligure ancora in vita era proseguito più o meno regolarmente. Avevo raggranellato le storie di oltre duecentocinquanta persone e un numero ancora superiore di interviste: da molti, infatti, ero ritornato una seconda volta e in qualche caso una terza o più.

Un giorno dei primi di febbraio del 2019 avevo telefonato a Franco Lupo, amico garbato e generoso dell’ANPI di Nervi, al quale volevo presentare la situazione di un vecchio guerriero di Bàvari classe 1930, giovanissimo partigiano della brigata SAP locale che avevo intervistato alcuni mesi prima e che – perso ogni contatto con l’ANPI e col partito (inteso il PCI e i suoi rivoli) – non aveva ricevuto la medaglia che il Ministro della Difesa nel corso del 2017 aveva, con gran battage pubblicitario, consegnato agli “ultimi partigiani”.

Franco, che mi aveva ascoltato e consigliato per quanto gli era possibile, aveva poi colto la palla al balzo: il presidente dell’ILSREC l’aveva appena incaricato, nell’ambito di una più vasta operazione tesa a rintuzzare l’ultima fatica di Giampaolo Pansa (“Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza”, edito da Rizzoli nel 2018), di sondare la disponibilità di Marco Secondo a vincere la propria ritrosia e a rilasciare – finalmente – un’intervista in materia con tutti i crismi dell’ufficialità. Il comandante bianco altri non era che Bisagno, il leggendario comandante della divisione Cichéro, ucciso dai comunisti secondo una vulgata tanto inconsistente quanto diffusa nei peggiori ambienti antipartigiani (e non solo). Vulgata che con l’autorevole contributo di Marco bisognava tornare ad affrontare. Ho proprio bisogno di te – mi aveva detto Franco, lusinghiero. Accettai, più per educazione che altro. L’idea di rivedere Marco non mi dispiaceva: sarebbe stata un’occasione per ritornare su determinati aspetti della sua storia personale.

Al primo incontro, poco più di una breve riunione amichevole, Lupo aveva esposto le ragioni che ci avevano spinto a chiedergli udienza. Marco non s’era tirato indietro, era parso disposto persino a registrare, ma aveva tracciato i contorni di questa sua disponibilità. Anzitutto occorreva definire per tempo una “scaletta” degli argomenti da affrontare nei colloqui successivi. Marco immaginava di doversi preparare. Non voleva farsi trovare scoperto su questo o quell’argomento: temeva le proprie difficoltà, ma era anche la prova di quanto fosse deciso a impegnarsi. “Occorrerà un po’ di pazienza”, aveva premesso, “perché non riesco più a parlare a lungo – ve ne accorgete, no? I novantasette anni mi pesano. La proprietà di linguaggio è calata, oltre a qualche vuoto di memoria che è inevitabile. Non solo: faccio fatica a leggere e ne sono molto dispiaciuto, perché ho sempre letto molto e per me è una grande rinuncia. Oggi a leggere un libro ci metto una settimana, una volta ci mettevo un giorno”.

Temeva che la sua testimonianza potesse trasformarsi in una conversazione che probabilmente l’avrebbe confuso. L’importante, aveva aggiunto, è non divagare. Non dire più di quel che interessa e può essere utile alla ricostruzione storica che s’intende effettuare. Non perdere il filo e procedere con ordine. “Certe cose le dirò dopo; verrà occasione dopo”, aveva concluso. Insomma: un’intervista con l’armatura. Un’intervista di cui voleva dettare modi e tempi; un’armatura di cui possedeva le chiavi. Ma ciò che ai miei occhi più contava era che Marco, all’alba dei novantasette anni, avesse accettato per la prima volta il confronto col registratore. O almeno questo era ciò che credevo: in seguito, avrei scoperto trattarsi di remore più recenti. Tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta aveva risposto davanti a un magnetofono a molte delle domande sulla sua storia personale di resistente che gli aveva rivolto lo storico Manlio Calegari; nel 1991 sugli stessi temi aveva tenuto una lezione, regolarmente registrata, nell’ambito di un seminario del dipartimento di storia della locale Facoltà di lettere; a fine anni Novanta aveva registrato tre interviste assieme al suo compagno ritrovato Giambattista Lazagna, con cui da più di trent’anni aveva burrascosamente troncato i rapporti (come si vedrà nel testo, pp.230/231).

Non era dunque una prima volta, per Marco, ma questa a cui si accingeva era diversa. Si trattava, adesso, di produrre un documento ufficiale, a futura memoria: da funzionario pubblico di grande esperienza (vent’anni di servizio in Comune tra gli anni Cinquanta e i Settanta), noto per il rigore con cui aveva interpretato il proprio ruolo, ne avvertiva la responsabilità e la misura dello sforzo che stava per affrontare.

A una settimana di distanza dal primo incontro, Marco aveva approvato con poche integrazioni l’elenco di argomenti che gli avevo presentato; dalla settimana successiva avremmo potuto iniziare con l’intervista. Tre mesi dopo all’attivo c’erano undici incontri per altrettanti file audio, registrati tra il 19 febbraio e il 28 maggio 2019.

Sin dalla prima volta che mi ero presentato a casa sua nel 2011, per quanto io avessi l’anagrafe di un nipote, Marco aveva lasciato da parte il compiacimento del nonno che rammenta la sua gioventù, preferendo indagare la mia: per quale motivo, di tanto in tanto, mi ripresentavo al suo cospetto con trenta domande diverse e specifiche sui fatti suoi e su quei tempi lontani? Lo faceva con ironia, ma sottraendosi di rado alle domande. Un giorno avevo chiesto di Boris, un russo che si era infiltrato nei ranghi della Cichéro per conto dei tedeschi. Ah, allora vuole occuparsi di Boris? – aveva risposto con un sorriso addirittura canzonatorio. Un’altra volta avevo indagato su Raffaele Vitale, collaboratore del SIP a Isola del Cantone, dov’era sfollato alla fine della primavera del 1944 da Sampierdarena, dove abitava e dove, per molti mesi dopo l’8 settembre e coi gradi da maggiore, aveva prestato servizio nell’Arma dei Carabinieri reali, ormai sotto le insegne della Repubblica sociale. – Va bene: per sua informazione, e visto che si è interessato al caso… – e aveva iniziato a raccontare, quasi a farmi una concessione personale, ma sempre contrario all’idea di sottoporsi al vaglio dell’mp3.

Mio nipote mi tormenta. Mi ha persino regalato il registratore, che non ho mai usato, vede? Vuole che racconti tutto, ma non ne ho voglia”, perché “le cose ormai si sanno” e anche perché “la gente non capirebbe”. Trattare del passato, compreso quello che aveva vissuto, dirne il bene e il male, richiedeva una grande onestà intellettuale, sosteneva. “A dire il male si finisce inevitabilmente a dare dei giudizi sulle persone”, pratica spiacevole in caso di morti o di bravi partigiani che “poi, dopo, hanno un po’ deviato…”. Anche sulla memorialistica resistenziale mi aveva messo in guardia (“bisogna sceverare il grano dal loglio”): necessario distinguere fonte e fonte; non tutte andavano trattate alla stessa maniera. La cosa più difficile restava però restituire il clima di allora. “Non vedo mai, nei libri, uno sforzo per porre in rilievo le difficoltà che abbiamo dovuto superare in montagna e cosa aveva significato per noi la lotta che prima di tutto è stata lotta per la sopravvivenza”. Qualunque libro sulla Resistenza avrebbe dovuto iniziare col fare una distinzione tra le condizioni dei partigiani e quelle dei repubblichini. Per questi ultimi, la caserma, la paga, la divisa, le armi; l’ospedale, se feriti; la possibilità di tornare a casa, di riposare. I partigiani non sapevano dove andare a dormire, mangiavano quando e quel che potevano; niente ospedali né prigioni dove trattenere i nemici catturati, per non dire delle difficoltà nell’arruolamento: non si poteva fare l’esame del sangue ai nuovi arrivati. Era una guerriglia in cui “i tedeschi e i fascisti, quando s’incontravano, erano quasi sempre in forze superiori e meglio armati e sapevano che dopo un giorno o due tornavano a casa”. Dalla loro i partigiani avevano un’arma, segreta ai nemici, di carattere morale: “la scelta giusta”, secondo Marco non c’era dubbio.

Tutti questi concetti, espressi nel 2011, erano grosso modo gli stessi che avrebbe ripetuto durante i primi incontri del 2019, a seguito dei quali iniziò a manifestare perplessità di natura formale. “Ero preparato a fare una relazione, non un’intervista. Ma è diventata un’intervista e forse è più giusto così”. Eravamo al terzo o forse al quarto incontro e a fronte del piano concordato poche settimane prima, le cose stavano cambiando. Rispetto al progetto iniziale di rintuzzare Pansa e le sue illazioni sulla figura di Bisagno, era chiaro come le nostre chiacchierate avessero ormai assunto proporzioni differenti e Marco si interrogava su quale fosse la più appropriata destinazione d’uso del materiale in corso di produzione. Una memoria destinata all’archivio dell’Istituto storico? O magari, anziché lasciarla giacere in un deposito riservato agli specialisti, non sarebbe stato meglio farne un libretto – “rivisto, limato”, non mancava di puntualizzare – da destinare alle stampe?

Non aveva più dubbi, se mai ne avesse avuti, sul valore del suo personale contributo – responsabile del servizio informativo di una importante divisione garibaldina – alla ricostruzione della vicenda partigiana. In lui però era nato qualcosa di nuovo, un sentimento tenuto in sordina fino ad allora: di quella vicenda bisognava ritornare a parlare in pubblico. “Sono cose che devono rimanere, perché noi, qui, oggi, dobbiamo battere Pansa” – aveva fatto un passo indietro – “e soprattutto dobbiamo battere quel che accadrà nei prossimi anni. Di fronte a questo revisionismo al contrario, di cui esistono già molti segnali, bisogna essere il più precisi possibile. Ci lavoriamo cinque o sei mesi, perché bisogna stare attenti alle ripetizioni, a non commettere errori”. Pansa l’aveva conosciuto sessant’anni prima e l’aveva ospitato a casa un paio di volte quando, giovane laureando, sul finire degli anni Cinquanta aveva scelto la guerra partigiana come oggetto della sua tesi di laurea e perciò aveva potuto intervistare molti partigiani genovesi. Bisognava affrontarlo e sconfiggerlo sul suo stesso terreno: ci voleva un libro. Il materiale che avevamo prodotto ben si prestava allo scopo e ad occuparmene dovevo essere io.

L’ultimo incontro del ciclo del 2019 fu il martedì successivo alle elezioni europee. Marco era molto dispiaciuto per quella sconfitta elettorale. “Arrivare alla mia età, con quello che si è passato, vedere Salvini e Casa Pound, quella gente lì: influisce sull’umore. Se c’è una cosa di cui vado orgoglioso è che la Resistenza l’ho fatta sul serio. È stato un periodo eroico, di grandi responsabilità. Ho dovuto risolvere problemi difficili e, superbia compresa, credo di essere riuscito a farlo bene”.

Quella che segue è la storia di Marco raccontata da Marco, ascoltata da me e da Franco Lupo, riordinata e trascritta da me. L’impianto del testo corrisponde alla “scaletta” concordata con Marco al principio degli incontri del 2019, salvo minimi aggiustamenti necessari a rendere la narrazione più lineare sotto il profilo cronologico. Parziali integrazioni sono state rese possibili a seguito della consultazione dell’archivio privato di Giuseppe Balduzzi e grazie alla disponibilità del fascicolo “Balduzzi” (1987-1991) conservato nell’archivio personale di Manlio Calegari, dell’intervista registrata con Giambattista Lazagna (1998) e degli appunti ricavati dai nostri precedenti incontri (2011-2015). In particolare nell’intervista di Lazagna, eccezion fatta per minimi inediti e trascurabili discrepanze, ritornano gli stessi temi trattati qui, a vent’anni di distanza: identiche le impressioni, tali e quali i giudizi, spesso persino le stesse parole. In ultimo, nel novembre del 2019, all’Archivio Centrale dello Stato a Roma, tra i fascicoli del personale fuori servizio del Ministero dell’Interno, ho potuto consultare quello intestato al vice-commissario aggiunto di pubblica sicurezza Giuseppe Balduzzi, ulteriore e positivo riscontro documentale ai racconti di Marco sul periodo della Questura partigiana e oltre, dal 25 aprile all’attentato a Togliatti.

È la storia di un giovane patriota cresciuto nel solco tracciato dal sistema educativo fascista, cui la guerra fa mutare opinione. Succede tutto nell’estate del 1943: la caduta del Duce, l’armistizio, la fuga verso casa, il matrimonio a ventidue anni (“avevo detto che ci saremmo sposati alla fine della guerra e la guerra era finita”) e il comunismo, personificato da Giacomo Buranello e da Walter Fillak, conosciuti in via Balbi nelle aule universitarie. Marco al comunismo, unica offerta politico-militare immediata e convincente contro il fascismo e il nazismo, aderisce in maniera inevitabile, diremmo naturale. Poi l’arresto (maggio 1944), la fuga, la partenza per i monti (luglio), la nascita della figlia (15 agosto) e il rastrellamento (24 agosto), cui segue la svolta: l’incarico ricevuto alle Capanne di Carrega di scendere a dare un’occhiata a Cabella Ligure, per fiutare l’aria della valle, cercare collaboratori e cominciare la storia di quello che sarebbe diventato il SIP, il Servizio informazioni e polizia della val Borbéra, agli ordini della divisione Cichéro e di Attilio, impetuoso sindacalista di Certosa, comunista figlio di anarchici, figura centrale di questa storia, come Minetto e Scrivia, Johnny e Gigi, e i morti: Avio, Berthoud, Macchi, Tocci. Servizio informazioni, ma anche scambi di prigionieri e rapimenti di fascisti e possidenti a scopo di riscatto. Sino al 25 aprile, la Liberazione e il ruolo della divisione Pinan-Cichéro nella resa di Genova con il blocco della valle Scrivia alle gole di Pietrabissara, ad impedire la ritirata tedesca. Infine il “dopo”: un dopo che inizia con la resa dei conti (condannata senz’appello), prosegue con la reggenza dell’Ufficio Politico della Questura di Genova fino alla prima metà del 1947, quindi la breve carriera in Polizia, prima a Genova e poi ad Asti, dove si trova a dover affrontare i moti del 14 luglio 1948 e i partigiani che ritornano in collina. Poi la carriera in Comune, sempre a livello direttivo, prima all’Istruzione e poi all’AMGA (la municipalizzata di gas e acqua), la pensione (1974) e la lunga vecchiaia. Una storia che, come si capisce, non è solo la storia personale di Marco, ma apre una finestra su una storia più grande, quella dei ribelli di Cichéro, di cui Marco è stato un elemento di spicco e di quella storia ha rappresentato, perlomeno nei suoi ultimi dieci anni, il più autorevole testimone.

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