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Ferragosto

Nella guardiola vuota sotto il voltone dell’entrata, l’orologio elettrico segna le 15.

È di quegli orologi che, a ogni minuto che passa, sembrano mangiarsi i numeri e ingoiarli con un leggero rumore di molle.

Ingoia, ingoia e Giovanni, il portiere, non torna, deve aver trovato compagnia alla macchinetta del caffè.

In faccia alla guardiola, l’asfalto si liquefa nel sole del piazzale da cui l’autobus s’è appena mosso per imboccare la tortuosa discesa tra i giardini e prati all’inglese, ville moderne e vecchie cascine restaurate.

Più sotto scorrono via siepi di rose lungo il bordo di piscine, portoni automatici, fregi in ferro battuto; in fila, fino alla fermata dello stadio comunale dove la strada finalmente s’allarga e si spiana.

Il centro non è lontano, ma in giornate come questa lo si può soltanto immaginare nella cappa di calura e di smog che ne confonde i contorni e ne complica l’esistenza.

Se in giornate come questa ci si affaccia alla balaustra che incornicia la piazza davanti ai cancelli, non è difficile ricostruire i confini del creato: coincidono con la città, piccola e senza sbavature, tutta sdraiata nella conca di colline in morbido degrado verso sud, fino al serpente intorpidito del fiume. Proprio laggiù si smarrisce ogni cosa.

Dopo le anse del fiume altro non si capisce e non si vede.

Al di qua del voltone, invece, c’è il cortile con poche auto che s’arroventano nel parcheggio e un pino isolato a soffrire per il clima impossibile. Mura nuove stordiscono tutt’intorno, con il candore degli intonaci e il riverbero delle vetrate. Al piano terra, un’infilata di serramenti d’alluminio e targhette di plastica beige con lettere e numeri rossi di fianco alle porte.

L’intero edificio, un rettangolo cresciuto in altezza fino a diventare enorme, si porta addosso un’impressione di solitudine e di gelo, nonostante l’estate e il pomeriggio bollente, nonostante i camiciotti fiorati della gente che entra e che esce, distratta.

È un ospedale.

Anzi, è il Nuovo Ospedale della città, segnalato dagli occhi muti che si affacciano ai finestroni scorrevoli spalancati ai piani alti. Occhi muti sulle canottiere e sui pigiami sbottonati, una confidenza “sì, lo so che non posso, ma vorrei uscire, miseria porca!”

Sul lato ovest, prima che la parete si interrompa in un angolo intasato da avanzi di cantiere, una porticina e, al piano rialzato, una feritoia semiaperta che lascia vedere, dal basso, due teste che si fronteggiano e si spostano appena.

Si capisce che stanno conversando, ma sembrano farlo a piccole dosi, a balzi e pensieri sparsi.

Una testa è decisamente mal in arnese, spettinata, con la barba lunga, l’altra è una testa liscia e pulita che spunta da un camice bianco, con tutto in regola.

La prima appartiene a un povero diavolo pieno di problemi, uno di quei tizi che si potrebbero chiamare in mille modi: vecchio, o anziano, o ometto, oppure l’altro o, più sbrigativamente ancora, lui.

La seconda è del dott. Gatti Enrico.

“Cazzo! Cazzooo! Cazzoooo!”

Accade tutto senza preavviso.

Dal cortile, per fortuna, non si riesce a sentire, non sta bene che un anziano s’esprima così… In compenso si vedono le sue labbra tendersi, per tre volte si vede un collo secco, da gallinaccio stizzito, allungarsi e rattrappirsi al cospetto dell’aplomb di chi gli sta davanti.

“È più di un’ora che mi bombarda di domande! Non so più un cazzo di niente, la vuole capire o no, non me ne ricordo, cristo?! Perché non ci vuol credere?”

Il camice tace, imperturbabile, e il vecchio prima sbattacchia le mani e poi le congiunge come se supplicasse.

“Parli lei, piuttosto, me lo racconti lei come sono arrivato qua. Mi dica qualcosa, cerchi di spiegarmi cos’è successo, se ne è capace! O mi lasci in pace, una volta per tutte!”

Il vecchio s’ammutolisce, in attesa.

La testa azzimata si decide a rispondere.

“Guardi che c’è ben poco da raccontare, sa? Stamattina ce l’hanno scaricata qui, punto e stop! E poi si dia una calmata, amico, e veda di moderare i termini, se no la smettiamo subito. Io sono qui per aiutarla, cosa crede?!”

Si guardano storto.

“Mi hanno scaricato?! Mi hanno scaricato chi, perdio? Ci sarà pur stato qualcuno che li ha visti, che mi ha ritirato alla consegna?!”

“L’hanno accompagnata qua i vigili…”

“Ma come, i vigili?”

“Giovanni, che ha assistito all’arrivo, ci  ha detto che al Pronto Soccorso aveva dei vigili insieme…”

“Giovanni? E chi cristo è ‘sto Giovanni? Chi lo conosce?”

“Giovanni, se davvero ci tiene a saperlo, è il portiere che l’ha registrata in ingresso e che poi ci ha messo su tutto un resoconto, con tanto di vigile e di bicicletta nera…”

“Io… su una bicicletta nera? Mai avute di bici del genere, questo almeno me lo ricordo di certo!”

“Non lei, era il vigile con la bici nera.”

“E io allora?”

“Se ci penso, Giovanni non è stato lì a precisarlo come viaggiava lei, forse a piedi!”

“Come sarebbe “forse”, lo sa o non lo sa? E poi a che ora, esattamente?”

“Alle nove e quaranta, circa”

“Del mattino?”

“Chiaro. Del mattino, questo gliel’avevo già detto”

La testa mal in arnese si dondola concitata nel vano della finestrella, avanti e indietro, finché non s’intravede un braccio spuntare e, da sotto, anche una mano per sostenerla e per calmarla.

“E adesso, dottore, che ora fa?”

Enrico dà un’occhiata all’orologio e l’atto, meccanico e normale, basta a stemperare la tensione.

“Le tre del pomeriggio”

“Già le tre del pomeriggio! Il tempo m’è volato e io continuo a non capirci niente. Lo vede anche lei che non mi ricordo un’ostia, alle tre del pomeriggio”

L’ometto brontola e si cerca intorno.

Si sofferma sulla greca di piastrelle bianche e azzurre che corre contro il muro della stanza, semplice come un ghirigoro infantile; ai suoi piedi il pavimento di linoleum verde pisello gli richiama dallo stomaco una leggera nausea che aumenta pian piano quando lui, con lo sguardo, s’infila in un corridoio stretto, come decapitato da tramezze provvisorie, autentiche barricate d’armadi in ferro. Vie di fuga non se ne parla.

 

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