ANTE
Questa storia avrebbe potuto e dovuto iniziare in maniera eclatante, pimpante, scoppiettante… insomma ce ne sono tante di parole che terminano con “ante”.
Inizia invece in un modo che più banale di così…
Dunque Alfredo, chiamato Dino quando era piccolo per poi, da adulto, diventare Fredo, quel pomeriggio si era recato al “pensatoio”.
Perlomeno così Adelina, sua moglie, chiamava quel posto.
Fredo era felicemente in pensione da poco, sicuramente sposato da troppo e perennemente in cerca di impegni. Avrebbe voluto fare parecchie cose, compreso un po’ di sport, ma il considerevole girovita, che aveva messo su con infinita pazienza nel corso dei molti anni trascorsi seduto ad una scrivania, ora era diventato un ostacolo per parecchie attività.
Sicuramente non era adatto al gioco delle bocce, sport nel quale si era distinto da giovane come fine bocciatore. Certamente non il tennis, dato che quel peso debordante, sul davanti non gli dava la stabilità necessaria per effettuare diritti e rovesci. La bicicletta quella sì che sarebbe andata bene, ma nel traffico caotico di Torino era troppo pericolosa.
Un giorno poi l’idea: “e se scrivessi un libro? Davanti al computer, seduto tranquillo, se mi va posso anche mangiare mentre scrivo. Perfetto!”
Detto fatto, aveva iniziato subito a scrivere; la trama non la sapeva ancora, ci avrebbe pensato più avanti. Aveva cominciato con il descrivere un omicidio; un morto ammazzato ci sta sempre bene e il resto… sarebbe venuto da sé!
Ecco, così facendo aveva trovato il modo per occupare i pomeriggi che, soprattutto durante l’inverno, sono noiosi e non passano mai.
Perché al mattino aveva altro da fare, eh già!
Era andata così.
Il padre di Fredo, uomo precisino, anni prima aveva iniziato ad andare al bar tutte le mattine alle 10 in punto tanto che, dopo un po’ di tempo, gli avventori di quel locale, il Bar Ligure, regolavano l’orologio quando lo vedevano entrare.
Era quindi diventata una questione di principio cosicché, cascasse il mondo, tutte le mattine, a quell’ora, apriva la porta ed entrava nel bar. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, erano già passati più di tre anni quando, il 1° aprile, l’ora era scoccata ma lui non si era visto.
Sconcerto!
I frequentatori si guardavano l’un l’altro, si interrogavano muti, fino a che uno di loro, Pino il genovese, che quel bar lo frequentava perché il nome gli ricordava la sua terra d’origine, aveva inspirato profondamente. Era da tutti chiamato “Pino Silvestre” per via del suo alito perennemente agliato e, per questo motivo, relegato in fondo alla sala in via definitiva con un’ordinanza del barista controfirmata con sollievo da tutti gli avventori abituali.
Con i polmoni pieni Pino aveva detto a gran voce: – Tranquilli, ci ha fatto uno scherzo… oggi è il 1° aprile! –
Con fare indifferente il barista, uomo navigato, si era chinato dietro il bancone mentre le persone presenti si proteggevano in qualche modo; chi mettendosi il giornale davanti al volto, chi trattenendo il fiato, nell’attesa che passasse quella folata malefica. Poi, dopo aver ripreso a respirare, tutti insieme avevano scrollato il capo.
-È morto – aveva detto uno.
-Sì, è morto – avevano ribadito tutti gli altri avventori.
Era proprio morto! Dopo tre anni senza un malanno era schiattato all’improvviso.
Fredo questa mania del papà non l’aveva mai capita. Una volta in pensione però anche lui aveva iniziato, quasi per gioco, a fare lo stesso e con il passare dei giorni non era più stato capace di smettere. Ed erano ormai parecchi mesi; sempre puntuale, era diventato come lui, come lo era stato suo padre, il punto di riferimento, il segnale orario per i frequentatori del Bar Ligure.
Era il suo impegno mattutino e lo svolgeva con zelo, proprio come aveva fatto suo padre prima di lui.
Quel giorno però era un po’ sverso perché aveva avuto un battibecco con la moglie. Il motivo? Il brutto sogno della notte precedente che era sicuramente da imputare a lei, quella serpe di Adelina.
Ecco il sogno.
Erano in casa e lui, come ogni mattina, si era preparato e stava uscendo per andare al bar.
-Fredo, dammi una mano a metter su le tende in soggiorno – aveva detto Adelina.
– No, lo sai che adesso non posso, è ora che vada.-
-Ma facciamo in fretta. Ci vogliono cinque minuti. –
-Non mi rompere le palle! Devo andare, ti aiuto nel pomeriggio. –
-Ma oggi vengono le mie amiche a giocare a pinnacola! –
-Allora domani mattina, ma presto – ed era uscito.
“Cazzo”.
Era stata una piccola discussione, gli aveva portato via solo un paio di minuti ma… adesso gli mancavano!
Sì, perché due minuti di ritardo erano difficili da recuperare. Lo sapeva con certezza, quella che deriva dal fatto di aver pianificato tutto nei minimi particolari, senza lasciare nulla al caso.
Al bar ci andava a piedi, sempre lo stesso percorso. Non c’erano semafori che potessero far variare il tempo del tragitto; se incrociava qualcuno che conosceva si limitava a salutarlo non potendo certo fermarsi a scambiare due chiacchiere. Anche il suo passo, dopo mesi, si era sincronizzato con l’orologio interno e faceva sì che arrivasse sulla soglia del bar quando scoccavano le 10 in punto.
Per la verità aveva la possibilità di rettificare la camminata nell’ultimo tratto; aumentare la cadenza dei suoi passi se era qualche secondo in ritardo o rallentarla se in anticipo. Questo perché quando faceva l’ultima svolta vedeva, davanti a sé, ad una cinquantina di metri l’insegna del bar e subito dopo, quella della farmacia. Gli era sempre piaciuta la croce verde illuminata che lampeggiava continuamente, ma non era questa che attirava la sua attenzione. Era piuttosto l’orologio, posto a fianco di quella croce, che catturava il suo sguardo; soprattutto la grande lancetta che scandiva i secondi.
Era quella che lo aiutava e gli permetteva di aprire la porta del bar proprio nel momento in cui raggiungeva lo zero e l’orologio segnava le 10 esatte.
Ma quella mattina era partito da casa con due minuti di ritardo!