A leggere la collezione di studenti e di colleghi che proponi non è che venga fuori un’immagine proprio edificante…
In effetti sono un po’ preoccupato, perché alcuni lettori prendono per buono tutto e, quindi, anche le esagerazioni che un umorista usa per descrivere personaggi e situazioni: mi hanno già accusato di essere stato troppo duro con la scuola e spietato con le scuole come la mia. È vero che temo di essere abbastanza disilluso rispetto al mondo della scuola, ma sono contento anche che se ne parli così magari si possono migliorare le cose, perché a me la scuola continua a piacere.
Dei tanti che descrivi che tipo di collega sei e quale studente sei stato?
Io mi ritrovo in quasi tutti, almeno un pochino. Più di ogni altro nel “lagnoso che vuole cambiare lavoro” e nel “disordinato”. Come studente non ho dubbi “quello che non studia”.
Con quale spirito scruti colleghi, studenti e quanti passano sotto i tuoi occhi indagatori?
In verità non mi accorgo di osservare le persone, capita che quando mi metto a scrivere mi tornino in mente particolari divertenti di persone che ho incontrato e allora li inserisco. Se proprio devo darmi un obbiettivo d’autore, mi piacerebbe che chi legge un capitoletto in quei cinque minuti si diverta senza pensare alle scocciature quotidiane. Un umorista diventa pesante se lo leggi come un romanzo. Stefano Benni è tra i pochi che siano riusciti a scrivere romanzi interi umoristici. Nella sua “Grammatica di Dio” c’è il racconto del nonnino che credo sia il punto letterario più alto raggiunto da questo autore.
Hai citato Benni, ma quali sono i tuoi riferimenti letterari?
A mio papà, che era anche partigiano, piaceva molto Giovanni Guareschi, così dopo essere passato da Melville e dai “Ragazzi della via Paal”, sono finito con l’appassionarmi al creatore di don Camillo e Peppone. Poi, come detto, c’è Benni e naturalmente gli umoristi. Italo Calvino, per esempio, è stato un grandissimo umorista: basti pensare al “Cavaliere inesistente”, ma non solo a quello. Mi piacciono molto i gialli, da Simenon a Montalbano; ultimamente mi sto dilettando con Vargas Llosa che scrive anche cose comicissime. E “Pian della Tortilla” di John Steinbeck è uno dei libri più divertenti mai scritti. Leonardo Sciascia mi è piaciuto molto e luigi Pirandello l’ho letto tutto in bagno.
Fai molti riferimenti ai luoghi della Granda e usi anche piemontesismi. Perché questa scelta per così dire “localistica” in libri che, per il taglio che hanno, posso essere letti a qualsiasi latitudine?
Io tengo molto alla nostra terra. Quando scrivi, inoltre, non devi raccontare delle balle: devi dire quello che sei. A me non dispiacerebbe parlare dei laghi, ma qui non ci sono, non fanno parte della mia realtà e, quindi, parlo di quello che conosco. Mi piace sottolineare che tutti gli accenni geografici sono veri: quando dico che ci sono 365 curve tra Dronero e Acceglio, non è un numero citato a caso. Tutti i luoghi in cui ho mandato in esilio i colleghi esistono davvero. Per quanto riguarda i termini piemontesi, li uso quando servono e posso spiegarli.
In fondo si capisce che gli studenti ti piacciono, però tu credi di piacere a loro?
Credo di sì, anche se sono furbi: hanno trovato il mio punto debole e lo sfruttano. Si tratta del pallino per la classicità greca e latina. A me piace da matti “Le metamorfosi” di Ovidio e, pur insegnando elettrotecnica, mi capita di fare divagazioni sui miti, con tutte quelle storie meravigliose. Loro ogni tanto mi invitano a raccoglierne di nuovi, perché sanno che se inizio…
Intervista di Raffaele Viglione tratta da “IDEA” del 17 gennaio 2013